Arkansas Traveller 100 - The South stole my heart


Raramente ho voluto una gara quanto Arkansas Traveller.



C’è chi vive per la competizione, ma quell’istinto o ce l’hai o per tanti versi diventi ridicolo a tirarlo fuori a forza.
C’è chi usa le gare per darsi uno stimolo, un fine, qualcosa per sopportare il fatto di dover uscire a macinare chilometri invece che svaccare sul divano. Ma quella voglia è forse l’unica cosa che non mi è mai mancata.
C’è chi fa le gare per vedere posti nuovi, conoscere gente diversa. E non ho mai negato che è uno dei grandi piaceri di girare il mondo a fare gare. Ma onestamente ci sono un paio di migliaia di posti che volevo vedere prima dell’Arkansas. E comunque, un posto si vede e capisce meglio senza lo stomaco piegato in due, le gambe che tremano, i piedi in fiamme e l’attenzione puntata solo al fascio di luce che esce dalla tua frontale. O forse no, ma il punto è che non era il turismo che mi spingeva a scoprire che Little Rock è la capitale dell’Arkansas nonché patria di Bill ed Hilary Clinton.

"Eat weel, not too much, mostly plants" e non dite che non seguo i consigli che do...

A volte capita che i miei atleti riescano a tirarmi fuori quello che io dovrei chiedere a loro. E così parlando con una di loro, ho capito perché volevo così tanto Arkansas Traveller: perché avevo bisogno di rientrare in quello stato in cui l’unica cosa che conta è pensare ai bisogni primari, a sopravvivere. Zittire il resto e mettere la testa sulla corsa. Ritrovare quel filo, l’attimo in cui solo il gesto importa, in cui il centro del mondo è il movimento continuo. Avevo bisogno di mettermi di nuovo alla prova. Sportivamente, si intende.

Genova-Roma, Roma-Miami, Miami-Dallas, Dallas-Little Rock.

Io e MC. No frills. La squadra migliore.

La mia crew: less is more.

Un paio di giorni nella placida capitale, due uscite per calibrare tutto nell’umida afa southern e poi nel mezzo del nulla all’HQ della gara, una magnifica struttura nella Ouachita Forest con annesso camp. Credevamo di essere soli, ma l’ospitalità southern è disarmante ed in poche ore siamo parte della grande famiglia. Poi compare Deirdre, da Sacramento per aiutare l’amica Barbara (anni 68) come crew e pacer: andrebbe conosciuta perché spiegarla a parole è impossibile, ma come resistere al suo entusiasmo contagioso? Si ripromette di darmi tutto il suo supporto e di guardare MC “like an angel”.
Io e Deirdre...

...ed io e Barbara!

Dormiamo nel retro della macchina, senza manco un materassino. C’è pieno di zanzare e 34 gradi, ma chissà come riesco anche a dormire ed al mattino esco a mangiare pane e nutella e guardo il cielo stellato tra gli alberi enormi. Sto bene dove sono, sono pronto, ho voglia di correre, di lasciarmi andare. Ho le mie paure, di non farcela, di non essere più all'altezza, di dover conoscere quella sigla di tre lettere che ho sempre evitato. Ma non abbastanza da bloccarmi. Sono curioso di vedere come va a finire, e so che è quella curiosità che mi ha sempre portato un passo oltre.

Start line.

E così, senza tante storie, ci ritroviamo sul primo tratto di asfalto, un gruppetto di una quindicina di persone. Come sempre, partiti troppo allegri, tanto che quando giriamo sullo sterrato abbiamo già fatto il vuoto. Tanti si conoscono, io brancolo nel buio e gioco a cercare di capire chi sembra il cavallo vincente. Lascio andare davanti cinque o sei persone e scambio qualche parola con un ragazzo texano che conosce bene la gara, appena entriamo sulla parte più tecnica (e bella) del percorso lascio un po’andare e mi accodo ad un tizio che mi sembra viaggi più che bene. Anche lui conosce la gara bene e quando vedo che ha tutte le intenzioni di andare a riprendere i due giovani davanti lo lascio andare e mi metto invece in coppia con John del Montana. Settima volta alla Arkansas Traveller.

Miglio 15, quando sembra tutto facile, io e John.

Siamo ora nella parte che ripeteremo al ritorno (buona parte del percorso è un out-and-back). Viaggiamo bene insieme, ma quando mi dice che mira alle 17 ore, capisco che devo tirare un po’i remi in barca o rischio. Con noi fa tiramolla un ragazzo alla prima 100 che sta tenendo un ritmo troppo schizofrenico per resistere, nonostante si veda che ha un bel passo. Lo passiamo e poi approfitto di una sosta tecnica per lasciare andare John e prendere il mio passo. Al 30mo miglio arrivo che sto bene: fa un caldo micidiale e l’umidità è devastante, ma sono stato attento ad iniziare presto con ghiaccio nel bandana e prendo una seconda borraccia a mano. Le posizioni sono ora delineate: davanti il giovane Daniel che sta tirando un bel ritmo forsennato, poi Steve che tiene duro, poco davanti a me John che sembra molto tranquillo, io e dietro il novellino che non molla.

Hot hot hot. Stile da rivedere.

Inizio a camminare tratti che per tanti versi potrei anche correre, ma so che una cento miglia è lunga e che a fare il furbo pagherei. L’unico problema? Quando cammino in salita muoio di sonno. Mai successo, manco dopo una notte e mezza di corsa. Eppure mi sembra di morire, sotto il sole di mezzogiorno vorrei buttarmi a terra e dormire un ora. Mi rendo conto che perdo lucidità e focus, il peggio è a Flamingo Club dove mi metto addirittura a camminare in discesa. Meglio correre ai ripari, e così mando giù due gel caffeinati e sostituisco Coca Cola al Ginger Ale ai ristori. Come d’incanto il sonno passa e più mi avvicino a Powerline, miglio 47, meglio sto. Riprendo a correre deciso in discesa e continuo in salita. Al ristoro c’è il RD, l’aid station captain e soprattutto MC che mi vede (beata lei) bene. Beh, allora sto bene.

Con il RD ed il responsabile del percorso: infallibili.

Cercando di evitare il meltdown totale.

Avanti così, tratti su belle sterrate dove riesco a correre bene, ristoro di Copperhead e poi dovrebbe esserci il turnaround. Inizio ad aspettarmi di vedere sbucare i primi tre ed ecco che arriva Daniel con pacer, Steve sembra sofferente (ma lo è stato tutta la gara ed alla fine non ha mollato di mezzo centimetro) una dozzina di minuti dietro, John gli è alle calcagna e con il suo pacer ci scambiamo un fist bump. Mi prendo tre/quattro minuti al ristoro e riparto contento di essere sulla “via di casa”: 59 miglia andate ed ora anche fisicamente sto ritornando sui miei passi. Spero di non incrociare nessuno per un pezzo, invece Shawn è alla base dell’ultima salita e sta correndo dove io camminavo. Ed ha un pacer.
Le gambe vanno. Lo stomaco anche. La testa molto più di prima. Forse aver visto Sha mi da anche un po’di sveglia. E poi la carica me la danno tutti quelli che incontro nell’altra direzione: scambio di complimenti, cinque e grida di incoraggiamento.




Un po’prima di Powerline ricompare MC. Mi vede ancora bene. Io mi sento anche meglio di prima e riparto con un certo fuoco sacro, contento anche che il sole sta finalmente calando dandoci un po’di sollievo (anche se la temperatura rimane parecchio alta). Sono finalmente in quello spazio che cercavo: mi ci sono voluti 15.000 chilometri di aereo e centodieci di corsa, ma ci sono. Incontro Barbara, l’abbraccio e poi continuo nella mia missione. Forse mi passa per la testa anche di provare ad andare a prendere John. Ma la verità è che accelero perché mi sto godendo tutto: il tramonto, lo spazio che lo stradone bianco si taglia nella foresta fitta, le gambe che urlano e la certezza che anche questa volta, in un modo o in un altro in fondo ci arriverò. Le aid stations passano una dopo l’altra, accendo la frontale, e mi viene da ridere perché mi piace questo mondo sospeso. La stanchezza, certo, si fa sentire. Ma fa parte dell’esperienza.

Arkansas youth. Lake Winona.

Sbuco a Lake Winona, miglio 85. John non sono riuscito a prenderlo (scoprirò poi che proprio qui avevo ridotto lo svantaggio al minimo). Così mi godo la compagnia di MC per uno o due chilometri: è dal miglio 25 che corro praticamente da solo. Poi lei torna indietro ed io provo a rimettere in fila tutto per l’ultimo sforzo. Tratto infinito, il primo in cui perdo un po’la testa: quando finalmente arrivo al ristoro un tizio mi fa salutare la fidanzata in video call da chissà dove. Mah.
Spingo più forte, gambe e piedi ancora perfetti (allora quelle ore passate ad alzare ghisa e sui gradoni a qualcosa servono…) e finalmente compare l’ultimo ristoro. Tiro un po’i remi in barca: so che arriverò, dietro ho spazio, il terreno è pieno di stupidi sassi. Poi compare il ruscello che avevamo guadato al mattino: avevo pensato a quanto sarebbe stato bello rivederlo, e celebro l’evento buttandomi dentro. E’ quasi mezzanotte ma ci sono ancora 30 gradi, l’acqua fredda mi sembra la migliore cosa del mondo. Ma non lo è, perché la vera migliore cosa è vedere una frontale che mi viene incontro: è MC. Mi godo cinque minuti di puro oblio: corriamo insieme in salita, nella notte, in una foresta dell’Arkansas. Poi la magia svanisce perché sbuchiamo sull'ultimo stradone in leggera discesa e va via a 4:20 pretendendo che io segua. Ci provo e reggo per un quarto d’ora fino al campeggio, ad un miglio dalla fine, poi chiedo pietà ed un attimo per ricompormi prima dell’arrivo. Strada, luci, ultima curva e lo striscione. Il RD si complimenta, ma sono io che devo complimentarmi con lui, gara fantastica, impeccabile sotto ogni aspetto. In tanti si fanno avanti, ringrazio tutti, faccio i complimenti ai tre là davanti. Poi mi levo le scarpe, mi sdraio a terra, alzo le gambe e mi guardo il cielo tra gli alberi. Felice.

Mangio ancora due piatti di pasta (fantastica) poi ci avviamo al campeggio. Faccio un casino con le chiavi, ma la scampiamo. Doccia e poi a dormire. Più o meno: se la macchina si era già rivelata scomoda ieri, con le gambe piene e la schiena a pezzi, diventa improbabile dormire davvero. Ma va bene così. Col chiaro torniamo all’arrivo, colazione faraonica e poi ci mettiamo tranquilli a vedere gli arrivi e parlare con circa mille persone diverse: fantastico. Premiazioni e poi saluti. Ringrazio i genitori del ragazzo arrivato quinto per aver tenuto compagnia a MC durante la giornata, la sua risposta è disarmante: “That’s the way we do it here. Southern style”.

Southern style. Enough said.

Riflessioni finali: quarto per la quarta volta in una 100 miglia. Dovrei essere un po’incazzato. Ma non ci riesco. Non ce l’ho proprio quel tarlo. Anzi, sono orgoglioso di aver fatto parte di un edizione battagliata come non succedeva da anni: tempi bassi e battaglia nonostante le condizioni dure. Ho fatto il mio e mi godo la medaglia di legno. Ho gestito bene la gara e sono arrivato stanco ma sobrio, capace di godermi tutto. Potevo dare qualcosa di più? Si può sempre. Avessi avuto un pacer avrei forse evitato qualche calo di tensione, ma non è un rimpianto, anzi. Mi sono goduto anche la solitudine.
Dal punto di vista fisico, sento di aver azzeccato quasi tutto nonostante l’annata un po’particolare. I blocchi brevi a cui mi sono sottoposto, qualche workout un po’diverso per cercare di cambiare passo, le session di potenziamento, gli esercizi di plyo. Anche stavolta sono riuscito a far quadrare il cerchio, nel bene e nel male.



Ci sarà un giorno in cui qualcosa andrà storto e salterò in aria. Verrà anche quello della temuta parola di tre lettere. Fa parte della vita di un runner e non è un disonore, una vergogna o un evento catastrofico. E’solo una sconfitta, e le vittorie si costruiscono anche con quelle. Forse più che coi quarti posti, perché vuol dire che hai messo sul tavolo tutto.

Ma quel giorno non è successo in Arkansas. Dieci su dieci e ci rivediamo alla prossima.

Buckled and proud.

Angolo OCD: materiali e varie. Lo so, è da psicotico, ma in una giornata come quella di AT100 materiale affidabile fa tanto.

Partendo da sotto, SCARPA SPIN, semplicemente perfette: reattive e leggere nei tratti corribili, ammortizzate il giusto per non sentire i sassi dell’Arkansas, precisissime nel tratto tecnico iniziale. Niente altro da dire: tre cento miglia fatte con le SPIN, mai un momento in cui avrei voluto qualcosa di diverso.

Calze Injinji Run Original Weight No Show (che sono vecchio per la calza crew), un paio solo per tutta la gara, zero vesciche. E se contiamo che c’erano 35 gradi e 90% di umidità, è un mezzo miracolo.

Shorts Montane Fang. Anche qui una garanzia, tessuto traspirante che non si inzuppa e comfort in una zona particolarmente delicata. Più tasche capienti per gel e varie.

Canotta Montane Razor. Tenuta per le prime quindici miglia, poi abbandonata perché sono un tamarro e il 90% di umidità iniziava a tassarmi. Even the jungle wanted me dead.


Trucker Destination Unknown e bandana per ghiaccio. E stop.

Hardware: una borraccia Nathan Fastdraw alla partenza, due dal 30mo al 75mo. Lampada Black Diamond Revolt la prima mezz’ora e poi dal 75mo a tornare. Ottima, bastava ed avanzava. E una passata di Squirrel NutButter nelle zone delicate che solo alla fine hanno iniziato ad urlare pietà.

Cibo: ogni volta mi faccio il piano B, il piano C, il piano D. E alla fine uso sempre e solo il piano A: gel dopo gel dopo gel, ogni maledetta mezz’ora. Questa volta, per motivi di causa maggiore (abbiamo viaggiato col solo bagaglio a mano per risparmiare) ho smesso di andare oltre il piano A e ho avuto conferma che per me funziona la dieta liquida. Quando preso da golosità ho ingerito mezzo panino al formaggio, ho subito sentito che non andava e sono tornato alla base. Unica concessione, anguria dove c’era, qualche pezzo di arancio alla fine e abbondante Ginger Ale prima, Coca Cola dopo, a seguito della mia crisi di narcolessia. E poi, anche se sarà effetto placebo, pastiglie di Saltstick ogni ora. Fa schifo mandare giù 35 gel Powerbar? Si, assolutamente: ad un certo punto provi tutti i metodi per far passare quel boccone senza sentire sapore o consistenza, ma funziona.
Facile ed efficace: ha senso cambiare?

All you need is love.



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